Gioia, solitudine, violenza di un cuore.

(1924 – 1955)

Senza occupare posti di responsabilità o compiere grandi opere, visse da vera Passionista la “solitudine del cuore” penetrando il fondo del mistero della Croce. Nonostante la precarietà della salute, si prodigava nelle opere della comunità con una dedizione e disponibilità da raggiungere l’eroismo. Lascia questa terra a soli 31 anni, serena e consapevole di essere destinata alla visione di Dio.

Maria Perrotta, Sr Amabile del Sacro Cuore, nasce a Portico (Caserta) 13 settembre 1924, secondogenita di nove figli. Nell’ambiente familiare conosce subito la sofferenza a causa del padre, che non si cura della famiglia; al contrario la mamma, profondamente cristiana, si assume il peso di lavorare per mantenere i figli, che educa secondo i principi più profondi del Vangelo e della fede. Maria la sostituisce nei lavori di casa e nella cura degli altri otto fratelli, mentre la mamma lavora dalla mattina alla sera. Appena può, impara il lavoro di sarta e aiuta anche economicamente la famiglia.

Non tralascia mai la Messa quotidiana, tanto che la mamma, che desidera tanto che uno dei suoi figli si consacri al Signore, le domanda: “Maria, perché non ti fai suora?” e lei risponde che non ci pensa, ma che è aperta alla volontà di Dio. Una missione predicata in paese dai Padri Passionisti fa sbocciare la sua vocazione e, orientata dal loro consiglio, chiede di entrare tra le Suore Passioniste che hanno la Casa Madre a Signa. Entra nella Congregazione il 7 maggio 1948 e veste l’abito religioso il 21 novembre dello stesso anno.

Fin dai primi anni manifesta i segni di una salute molto fragile per un serio problema cardiocircolatorio, motivo per cui i Superiori la inviano due mesi in paese, sperando che migliori. Rientrata con un lieve miglioramento, ha la gioia di consacrarsi con la Professione religiosa il 22 novembre 1949. L’aspetto florido e roseo a volte non rende credibile la sua malattia.
Già da postulante e da novizia si distingue per un’amabilità e una particolare disponibilità, che le fa trasformare in preghiera e obbedienza ogni atto della giornata; questo non annulla il suo carattere esuberante e schietto, tipico della sua terra. Di fronte alle ombre della vita comunitaria, non riesce a piegarsi al compromesso: è troppo limpida per accettarlo, e questo le causa a volte incomprensioni e dissapori. Più tardi, affinata dalla malattia e maturata dalla grazia, cambia le forme: gli atti di impazienza lasciano il posto alla testimonianza e alla sicurezza di un’obbedienza scelta e vissuta semplicemente e anche eroicamente.

A causa della salute viene trasferita in varie case della Congregazione, sperando che l’aria le faccia bene; nei suoi brevi soggiorni lascia una testimonianza eroica di fede e di amore tra le alunne, il popolo, le sorelle della comunità. Il 15 settembre del 1955, sentendo la fine imminente, chiede di fare in anticipo la professione perpetua e le sue compagne si uniscono a lei. Dopo aver ottenuto da Gesù il favore di rivedere anche per pochi istanti la mamma, per prepararla al distacco, muore serenamente, edificando tutte per il suo trapasso.

(Come hanno testimoniato, pp. 191-214).

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